La solitudine della sofferenza

Alle volte è così, si assiste a qualcosa di poco chiaro e dai risvolti che rivelano l’inquietudine di chi soffre, magari chiede aiuto, magari gliene viene dato, ma che si sente comunque solo. E a volte forse da solo viene lasciato. Chi si occupa, per lavoro, della sofferenza dell’animo umano e della sofferenza che crea una malattia mentale, sa che la solitudine è una compagna, e sempre a volte, l’unica compagna.

Quello che mi stupisce è il bisogno di certezza che scatta nella mente “degli altri” dopo un evento come quello di Caronia, che diventa tragedia, di chi si deve difendere, che si crede normale, e che deve coprire probabilmente solo la propria vulnerabilità. Bisogno che si trasforma a volte in dichiarazioni di certezza, affermando con la propria versione di certezza, la propria personalità, che soprattutto, quando impersonata nelle trasmissioni, rende vulnerabili solo al bisogno di protagonismo.

Le mie sono riflessioni inerenti la tragedia di Viviana e del suo Gioele, perché di tragedia si tratta. E tragedie così forti, perché rese pubbliche in televisione, ci toccano tutti.

Ma quante sono poi le tragedie che abbiamo vicino e che non vogliamo vedere. Perché sono tante, e la sofferenza di chi ci è vicino solitamente non la vogliamo cogliere, non la vogliamo vedere, non la vogliamo sentire, come se temessimo di esserne contagiati. Segnalo due link, che chi vuole può andare a leggere o ascoltare:
https://www.facebook.com/psicoadvisor/photos/a.217929414991246/3415173205266835/?type=3

La prima è di Psicoadvisor e rimanda alla seconda:
https://www.la7.it/in-onda/rivedila7/in-onda-19-08-2020-336546

ed è la trasmissione di ieri di la7 dove con garbo Luca Telese ha cercato di condurre le interviste. Emerge il garbo di Paolo Crepet che come sempre con grande sensibilità ha cercato i dubbi più che le certezze, e l’età lo rende un grande saggio oltre che psichiatra di grande umanità ed esperienza. Trasmissione dove si vede la differenza fra chi lavora di fatto con la sofferenza umana, la solitudine della malattia mentale e le infinite pieghe che ciò produce, e la freddezza, nonché arroganza, di chi forse per difendersi, cerca ipotesi che confermino la sua idea, cercando numeri, percentuali, che rimarcano solo la differenza fra chi lavora sul campo con la sofferenza e chi se ne approccia a distanza, postuma per giunta. Ovviamente parliamo di professionalità diverse e non voglio entrare nel merito.

Ma la cosa certa che emerge è lo stigma sociale della malattia mentale, perché chi ne soffre se ne vergogna in solitudine. Questa è la verità. I centri di salute mentale fanno quello che possono, versando in condizioni che in una società che si definisce civile non dovrebbe accadere, per come possono. Spesso non solo i pazienti, ma anche i familiari vengono lasciati soli, perché se il personale è carente si fa quello che si può.

Ma è sempre la mancata conoscenza o la rimozione di chi vive vicino alle persone che soffrono che mi colpisce. Forse perché la sofferenza di qualcuno potrebbe togliere veli alle vite ritenute normali ed aprire abissi di dubbi. Probabilmente è il timore di averla vicino che crea queste reazioni alla sofferenza. Un po’ come nella rimozione collettiva cerchiamo di allontanare da noi la Guerra di Jugoslavia, avvenuta in tempi relativamente recenti, parliamo degli anni ‘90, e ci interessiamo invece a guerre più distanti da noi.

Fatto sta che oggi parliamo e cerchiamo di capire quanto avvenuto nella mente di una donna che soffriva di una malattia mentale, perché di malattia si tratta, come per il resto del corpo, ci piaccia o no, ma è così. Cerchiamo ipotesi, ma l’unica certezza che ci tocca è la solitudine della sofferenza, che fa tanto rumore nella mente di una persona e crea tanto dolore. La solitudine di una donna malata che era sola con il suo bimbo di quattro anni.

Lo stigma sociale è questo, e forse dovremmo cercare di spiegare che malattia fisica e malattia mentale non sono differenti, ma soprattutto richiedono la stessa equità di trattamento. Mi unisco alla riflessione di Anna De Simone di Psicoadvisor… dobbiamo cambiare l’approccio alla salute mentale.

Personalmente penso che dovremmo informare e sensibilizzare il più possibile la popolazione affinché nessuno venga emarginato, lasciato solo e non visto. Forse si potrebbe iniziare in modo più corretto a parlare di disturbo, disagio, sofferenza, perché così amplieremmo il campo di intervento specialistico, che diversamente rimane limitato ad una definizione organicistica del concetto di malattia. Forse così “la malattia mentale” farebbe meno paura e si scosterebbe dalla paura antropologica legata al fatto che lo stato patologico alteri il rapporto e l’equilibrio desiderato fra persona e società, facendo perdere i punti di riferimento rassicuranti, che sono il motivo vero per cui chi soffre di malattia mentale fa ancora oggi paura. Dietro ad una diagnosi c’è sempre una persona, con la sua unicità, originalità e irripetibilità, legate alla sua storia, al suo contesto e alla sua personalità specifica…un valore assoluto da preservare. La cura prevede il “prendersi cura” della persona nella sua globalità bio-psico-sociale.

Evidentemente qualcosa non ha funzionato.

Il resto sono solo parole, che non sono niente di fronte a tanta solitudine e dolore.

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